martes, 22 de marzo de 2016

Europa (e non solo) nel mirino



Riflessioni di Andrea Carlo Cappi


Questa volta il sangue è stato versato a Bruxelles. Altre volte a Istanbul, a Parigi e in Tunisia. In realtà molto altro ne viene versato, ma non riusciamo a più a tenere il conto di quanto accade in Siria o in Iraq.
Se in Turchia la situazione è aggravata dai rapporti conflittuali con la minoranza curda - che comprende molte vittime innocenti, ma a quanto parrebbe tuttora anche frange estremiste che compiono attentati sulla folla inerme - altrove la firma è solo una: Daesh, o Isis che dir si voglia.
I bersagli si ripetono. La Turchia, paese che ha sempre fatto da ponte tra Europa e Asia Minore, ai tempi dell'Impero Romano come a quelli dell'Impero Ottomano. La Tunisia, il paese del Nordafrica che meglio ha gestito le conseguenze della Primavera Araba e in cui è planato il Premio Nobel per la Pace. La Francia e il Belgio, due paesi in cui l'osmosi dei jihadisti è continua. L'attentatore del Museo Ebraico di Bruxelles del ventiquattro maggio 2014 fu arrestato in Francia. I terroristi dei giorni di Charlie Hebdo avevano contatti con confratelli in Belgio. La mente delle stragi del tredici novembre veniva dal Belgio, dove è stato arrestato pochi giorni fa.
Coincidenza? Rappresaglia? Di certo la scelta di un giorno feriale alle soglie della Pasqua non sembra casuale: forse il piano era già pronto ed è stato messo in atto con tempestività. In fondo bastano pochi volontari per commettere varie stragi simultanee e coordinate. La tecnica: attaccare su più fronti e fare il maggior numero possibile di vittime, come a Parigi lo scorso autunno. Ma, a differenza del tredici novembre, la scelta dell'orario è stata il mattino, quando sui mezzi pubblici ci sono folle di studenti e lavoratori. La stessa scelta degli affiliati ad al Qaeda per le stragi di Madrid e Londra. Dopotutto, prima di rendersi indipendente dall'organizzazione che fu di bin Laden, per qualche tempo ciò che oggi si fa chiamare "Stato Islamico" è andato sotto il nome di "al Qaeda in Iraq".
Stessi metodi, dunque, anche se le denominazioni sono diverse. E di diverso c'è il grado di fanatismo: il Daesh supera persino i livelli di al Qaeda. Ma, se la sorella maggiore affonda le radici nella guerra in Afghanistan degli anni Ottanta e negli aiuti americani in funzione antisovietica di quell'epoca, lo "Stato Islamico" trae origine da una serie di gravi errori degli USA. Primo fra tutti, quello di abbattere con pretesti infondati il regime iraqeno - in origine laico e ormai inerte - di Saddam Hussein, destabilizzando l'area; secondo, quello di raggruppare nelle prigioni americane in Iraq i leader dei vari gruppi fondamentalisti, consentendo loro di costruire in riunioni carcerarie certe alleanze e coalizioni altrimenti impossibili; terzo, sostenere in Iraq un governo a prevalenza sciita, dando ad al-Baghdadi un valido pretesto per ergersi a (sedicente) difensore della causa sunnita.
Fortunatamente George Bush Jr. non ha fatto in tempo ad aprire - dopo Afghanistan e Iraq, missioni tutt'altro che compiute - un terzo fronte in Iran, altrimenti la conseguenza sarebbe stata una guerra di tutti contro tutti. Già le alleanze sono scomode ora che USA ed Europa si sono riavvicinati all'Iran.
La guerra civile esplosa in Siria all'indomani della Primavera Araba non ha subito interferenze dirette europee o americane - a differenza di quanto accaduto in Libia. A Damasco il dittatore, grazie anche al sostegno russo oltre che a quello iraniano, è rimasto al potere e la guerra non ha avuto svolte decisive in favore dei ribelli. Il che ha permesso l'ingerenza del Daesh, già consolidatosi in Iraq. Così i ribelli si sono trovati tra due fuochi: lo "Stato Islamico di Iraq e Siria" e l'esercito regolare siriano, cui si sono aggiunti di recente i bombardamenti russi, che non si sono concentrati sull'Isis ma hanno colpito chiunque fosse contrario al regime.
Nel frattempo il Daesh, come al solito, ha bisogno di "nemici esterni" per consolidare il proprio potere interno. Quindi: l'Occidente. L'America è lontana e in genere è più facile colpire in Europa, di cui Bruxelles è un centro nevralgico. Un'Europa dove si trovano molti proseliti non già negli immigrati di recente acquisizione - per quanto nel grande numero si nascondano anche gli infiltrati - ma in una base di cittadini europei di origini nordafricane e mediorientali costretti - complice anche la crisi - negli strati più bassi e frustrati della società. Ed ecco le cellule autarchiche (ma sempre ben fornite di armi ed esplosivi) e gli attentati, vissuti come una presunta rivalsa sulla società.
Risultato degli attacchi, a parte il triste conteggio delle vittime: una torrenzialità mediatica che mantiene vivo il senso di terrore nella popolazione (distraendola temporaneamente dal calcio) e funziona da pubblicità per il reclutamento di nuovi aspiranti fanatici, che evidentemente puntano a esperienze più sanguinose dei tafferugli alle partite. Del resto, ci sono anche foreign fighters italiani con famiglie, nomi e cognomi italiani.
Ulteriore effetto collaterale: far sì che gli occidentali di origine "occidentale" comincino a guardare con sospetto quelli di origine nordafricana o mediorientale, gli immigrati e i profughi, questi ultimi già al centro di una grave crisi per "risolvere" la quale è stato appena approvato un accordo euro-turco su cui ci sarebbe da discutere sotto molti aspetti.
E in tutto questo il Belgio, per quanto molto attivo nelle indagini all'indomani degli attentati di Bruxelles e Parigi, ha seri problemi ad affrontare la situazione. Basti pensare che in dicembre l'artefice delle stragi in Francia del tredici novembre riuscì a sfuggire alla polizia belga grazie - si dice - a una legge arcaica che proibisce le perquisizioni dalle ore ventitré alle sei del mattino seguente.
Come risolvere il problema del terrorismo? Trasformare l'Europa in uno stato di polizia dalle frontiere sbarrate, che diverebbe invivibile per i cittadini innocenti ma non ostacolerebbe più che tanto gli attentatori? Scacciare tutti coloro che hanno una tonalità di pelle diversa da quella ritenuta autoctona? Acuire le tensioni in modo che sempre più "stranieri" o figli e nipoti europei di "stranieri" comincino a pensare di improvvisarsi foreign fighters per legittima difesa? Tutte soluzioni che sarebbero facili da cavalcare per i politici, che notoriamente non condividono i problemi quotidiani dei loro sudditi - pardon - concittadini. E poi chi sbraita più forte raccoglie sempre un po' di elettori. Trump docet. Ma in queste situazioni la soluzione migliore passa sempre per l'intelligence, nel duplice significato di raccolta di informazioni e, più semplicemente, intelligenza.

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